L'imparzialità del Gup
La tutela
costituzionale dell’imparzialità del G.u.p. e la triste sorte di una
formulazione normativa inopportuna
a cura dell'Avv. Giuseppe Gragnaniello
(articolo
già pubblicato in Strum. Avv. Riv. Dir. Pen. Proc. – 3/2009)
La Corte
Costituzionale dichiara costituzionalmente illegittimo l’art. 34 c.p.p., nella
parte in cui non prevede l’incompatibilità a celebrare l’udienza preliminare
per il Giudice che abbia, all'esito del precedente dibattimento riguardante il
medesimo fatto storico a carico del medesimo imputato, ordinato la trasmissione
degli atti al pubblico ministero a norma dell'art. 521, comma II c.p.p. Viene
così riconosciuta, per la seconda volta, la pregiudicabilità della fase
dell’udienza preliminare, soprattutto alla luce degli interventi legislativi
che ne hanno irrobustiti gli spazi istruttori ed ampliato lo spettro causale
dei provvedimenti conclusivi. Tuttavia, l’imparzialità del G.u.p. è una
condizione necessaria che presiede al corretto funzionamento della regola di
giudizio di cui all’art. 425 comma III, indipendentemente dalle “mutazioni
genetiche” intervenute nel tessuto normativo dell’udienza preliminare
Sommario: 1. Una
questione di drittwirkung; 2. Smascherate le ragioni di un’inopportuna
elencazione tassativa; 3. Il minimo comune denominatore degli interventi
additivi della Consulta; 4. L’imparzialità del G.u.p. non conosce mutazioni
genetiche, né vi dipende.
1. Una
questione di drittwirkung
Benché introdotto nel
nostro ordinamento, da un punto di vista squisitamente formale, soltanto dalla
legge costituzionale 23.11.1999 n.2, il principio di imparzialità del giudice
rappresenta una delle chiavi di volta più importanti dell’intero diritto
processuale contemporaneo, domestico ed internazionale. La rielaborazione
integrativa dell’art. 111 della Carta Costituzionale si dimostra, difatti, il
frutto di una sedimentazione dottrinaria e giurisprudenziale pressoché univoca,
le cui norme di riferimento sono state, non a caso, gli artt. 3, 24, 25, 27 e
101 Cost.: esse si pongono in un rapporto organico di reciproca integrazione,
di modo che i valori posti dalla singola disposizione trovano nelle altre
significazione, specificazione, nutrimento e giustificazione sistematica. Se la
difesa in giudizio è un diritto inviolabile riconosciuto ad ognuno, anche dal
punto di vista processuale tutti i cittadini sono eguali innanzi alla legge, e
tutti hanno diritto ad essere riconosciuti innocenti fino al passaggio in
giudicato di una sentenza di condanna; e se il riconoscimento dell’innocenza è
un diritto insopprimibile (strettamente connesso alla tutela della libertà
personale ex art. 13 Cost.), esso va garantito innanzitutto da chi al giudizio
penale è istituzionalmente preposto, ex lege e prima
dell’instaurazione del giudizio stesso. Pertanto, si ritiene che soltanto un
soggetto terzo ed integralmente scevro da qualsivoglia convincimento,
precognizione o addirittura pregiudizio circa il merito della regiudicanda,
possa soddisfare una simile ed imprescindibile esigenza di tutela.
Se, come si accennava,
l’elaborazione della Corte Costituzionale aveva collocato l’imparzialità del
giudice fra i principi generali dell’ordinamento fin da un momento anteriore
alla formalizzazione costituzionale delle linee guida del “giusto processo” (C.
Cost., 24.4.1996, n. 131, in GI, I, 1996, 484; cfr. altresì C. Cost.,
22.7.1999, n. 355, in GiC, 1999, 2756; C. Cost., 17.6.1999, n. 241, in GiC,
1999, 2132; C. Cost., 30.3.1999, n. 105, in GiC, 1999, 942; C. Cost.,
1.10.1997, n. 308, in FI, I, 1997, 2721, C. Cost., 1.10.1997, n. 307, in FI, I,
1997, 2721, C. Cost., 1.10.1997, n. 306, in FI, I, 1997, 2722; C. Cost.,
15.9.1995, n. 432, in CP, 1996, 433; C. Cost., 25.3.1992, n. 124, in GiC, 1992,
1064), espressi riconoscimenti positivi erano già presenti da decenni in
numerose convenzioni internazionali, dalle quali la Consulta stessa ha più
volte attinto. Ad esempio, la legge n. 848/1955 con la quale il nostro Stato ha
ratificato la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (firmata a Roma il 4
novembre del 1950), all’art. 6 espressamente sancisce che: «Ogni
persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole,
davanti a un tribunale indipendente e imparziale costituito per legge, al fine
della determinazione sia dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere
civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta […]»; principio di imparzialità
che, secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, si
specifica nell'assenza di pregiudizio e del rischio di prevenzione, tanto sotto
il profilo soggettivo quanto sotto quello oggettivo dell’esistenza delle garanzie
sufficienti ad escludere ogni legittimo dubbio (C. eur, 16.11.2000, Rojas
Morales c. Italia; C. eur., 22.4.1994, n. 286-B, Saraiva de Carvalho c.
Portogallo; C. eur., 26.12.1993, n. 257-B, Padovani c. Italia, in CP, 1994,
1108; C. eur., 24.8.1993, n. 267, Nortier c. Paesi Bassi; C. eur., 24.2.1993,
n. 255, Frey c. Austria), con la precisazione che il rischio della prevenzione
è ravvisabile nelle ipotesi di coincidenza soggettiva tra il giudice che ha
compiuto atti definibili quali "istruttori" o ha emesso il
provvedimento di rinvio a giudizio e il giudice chiamato a giudicare al
dibattimento sul merito della stessa causa (C. eur., 22.2.1996, Bulut c.
Austria, in LP, 1997, 218; C. eur., 24.2.1994, n. 285, Casado Cola c. Spagna,
in LP, 1994, 587; C. eur., 25.2.1992, n. 227, Pfeifer-Plankl, in LP, 1993,
739).
Il periodo dell’art. 6 CEDU, a
sua volta riproduce integralmente e in modo assolutamente fedele il dettato
normativo dell’art. 10 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, adottata dall'Assemblea Generale
delle Nazioni Unite il 10 Dicembre 1948. Non sorge alcun dubbio, pertanto, sul
fatto che il principio di imparzialità del giudice oltre ad essere un principio
generale del nostro ordinamento, rappresenta il frutto di un orientamento assiologico
internazionale che vincola, in modo diretto ed immediato, le legislazioni degli
Stati facenti parte della comunità internazionale; e si ricordi, fra l’altro,
che i principi contenuti tanto nella Dichiarazione quanto nella Carta fondante
le Nazioni Unite sono ritenuti dalla migliore dottrina internazionalista (per
tutti, Conforti) principi di diritto naturale immanente, insiti nella coscienza
giuridica universale prim’ancora che nelle legislazioni dei singoli Stati.
L’art. 34 c.p.p. ha la precipua
funzione di apprestare una garanzia a tutela del principio di imparzialità del
giudice, in applicazione della direttiva n. 67 contenuta nell’art. 2 della
legge delega n. 81 del 1987 recante le linee guida per la redazione
dell’attuale codice di procedura penale. Essendo una norma che ha la
caratteristica di consentire immediatamente (nonostante l’infelicissima
formulazione) l’applicazione al caso concreto di principi generali
dell’ordinamento, essa non può non essere considerata quale espressione di drittwirkung; per tale caratteristica,
le si deve riconoscere una posizione giuridico-assiologica di primazia
all’interno del sistema delle garanzie inerenti il processo penale.
2.
Smascherate le ragioni di
un’inopportuna elencazione tassativa
La disposizione de qua è strutturata in tre commi originari, più altri tre
successivamente aggiunti da recenti interventi legislativi, tutti aventi la
caratteristica di recare un’elencazione tassativa dei casi in cui il giudice
deve (o meno) ritenersi incompatibile con lo svolgimento della funzione sua
propria, all’interno del grado o fase processuale che gli pertiene. Mentre la
disposizione del primo comma stabilisce che “il giudice che ha pronunciato o ha concorso
a pronunciare sentenza in un grado del procedimento non può esercitare funzioni
di giudice negli altri gradi, né partecipare al giudizio di rinvio dopo
l'annullamento o al giudizio per revisione”, il secondo comma prevede che non possa partecipare
al giudizio dibattimentale “il giudice che ha emesso il provvedimento conclusivo dell'udienza
preliminare o ha disposto il giudizio immediato o ha emesso decreto penale di
condanna o ha deciso sull'impugnazione avverso la sentenza di non luogo a
procedere”. Scomponendo in
senso cartesiano l’intero arco strettamente processuale, innanzitutto si
prevede un’incompatibilità verticale o per gradi di giudizio, in un’ottica
anche di regressione del procedimento: non può far parte del collegio d’appello
il giudice di prime cure che abbia pronunciato o concorso a pronunciare sentenza,
ed analoga incompatibilità è prevista nei casi di nuova celebrazione
consequenziale all’annullamento, o ancora nelle ipotesi di revisione del
processo.
Melius re perpensa, ma l’organo-persona non può che essere diverso (ne bis in idem soggettivo). In senso orizzontale, invece, si
prevede che non può assumere le funzioni di organo giudicante in sede
dibattimentale il magistrato che ha disposto il rinvio a giudizio (anche
accogliendo l’impugnazione avverso sentenza di non luogo a procedere) o il
giudizio immediato, o colui che ha emesso il decreto penale di condanna. A tal
proposito, bisogna ricordare che mentre nella legge delega l’incompatibilità è
stabilita in relazione alle funzioni di giudice del "dibattimento",
nel codice essa è riferita al "giudizio": in tal modo, risulta
ampliato il campo di applicazione della disposizione, la cui portata è divenuta
tale da comprendere anche il divieto di partecipazione a quei giudizi speciali
nei quali manca il dibattimento. Il comma 2-bis, aggiunto dall'art. 171, d.lg. 19.2.1998, n. 51, stabilisce ancora che
non può tenere l’udienza preliminare il giudice per le indagini preliminari, né
può questi essere giudice del dibattimento, salvo i casi di adozione di
provvedimenti non strettamente delibativi quali quelli elencati nel successivi
commi 2-ter e quater. L’art. 34
c.p.p. si chiude con la disposizione del comma 3, la quale prevede
l’incompatibilità al giudizio per soggetti che hanno rivestito all’interno del
procedimento particolari attività che, pur essendo diverse da quella
giurisdizionale, sono ritenute idonee a pregiudicare la posizione di terzietà
del giudice, in quanto sintomatiche di un condizionamento dell'imparzialità.
L’elencazione tassativa delle
cause d’incompatibilità ha dato vita, fin dalle primissime ore di vita del
nuovo codice di procedura, ad un accesissimo confronto di idee tanto in sede
dottrinaria quanto in quella giurisprudenziale. Si iniziò ben presto a
sospettare che un’elencazione tassativa, tra l’altro così esigua e ristretta,
non avrebbe mai consentito una salvaguardia piena del principio d’imparzialità
del giudice, oggi riconosciuto quale valore di naturrecht. A ben vedere, tutte le norme di rango ordinario che
hanno la precipua funzione di informare un sottosistema normativo ad un sovraordinato
principio generale, utilizzano clausole lessicali generali ed astratte, tali da
far ricomprendere all’interno di esse – in via innanzitutto interpretativa –
una moltitudine indeterminata di fattispecie. Fin quando si ragiona di
semantiche incriminatrici, allora è lecito invocare i principi di stretta
tassatività, compressione fortissima dell’interpretazione estensiva e divieto
assoluto d’analogia: il diritto penale costituzionalmente orientato si fonda
proprio sull’abbandono delle clausole generali, ed è giusto che sia così in
quanto solo una simile tecnica redazionale garantisce in ultima analisi il
diritto insopprimibile del singolo alla libertà personale. Inutile, per
converso, si dimostra invocare gli indubbi pregi di un’elencazione tassativa, laddove
essa possa mortificare in concreto diritti altrettanto insopprimibili del
cittadino, quale quello ad essere giudicato da un soggetto pienamente
imparziale e scevro da qualsivoglia pregiudizio.
Anche a prescindere dai numerosi
interventi additivi con i quali la Corte Costituzionale ha ampliato di gran
lunga lo spettro delle incompatibilità, sarebbe stato comunque ingenuo pensare
che i soli quattro casi considerati dall’art. 34 c.p.p. avessero potuto
esaurire tutte le ipotesi di incompatibilità al giudizio. Trattasi di una
normativa assolutamente inidonea a soddisfare il principio della terzietà del
giudice, la cui tutela avrebbe dovuto imporre la scelta di un’unica, diversa e
più ampia formulazione, tale da potervi ricondurre tutte le ipotesi astrattamente
suscettibili di compromettere l'indipendenza e l'imparzialità del giudice che,
nel medesimo procedimento, abbia già adottato provvedimenti di contenuto
decisorio - diversi dalla sentenza - fondati su valutazioni di merito della
regiudicanda. Ed il dato ancora più mortificante, dal punto di vista
scientifico, è che forse (ma sembra che sul punto ormai non vi sia più alcun
dubbio) la scelta di restringere al massimo l’ambito dell’incompatibilità sia
stata dettata non già da plausibili (benché opinabili) ragioni
logico-giuridiche, bensì da motivazioni di ordine organizzativo. Infatti, nella
Relazione al progetto definitivo dell’attuale codice, è dato atto che nel primo
parere la Commissione parlamentare aveva segnalato l’opportunità di prevedere
l'incompatibilità a partecipare al giudizio non solo del giudice che ha emesso
il provvedimento conclusivo dell'udienza preliminare, ma anche del giudice che
ha emesso un provvedimento durante le indagini preliminari, e che - a fronte
delle obiezioni motivate dai rilevanti problemi organizzativi derivanti dalla
esiguità dell'organico di numerosi tribunali - la stessa Commissione, nel
parere definitivo, ha ribadito le sue perplessità, rilevando che il presidente
della corte di appello potrebbe agevolmente sopperire agli eccezionali casi di
impossibile formazione del collegio, distaccando semmai qualche magistrato
nell'ambito del distretto.
Pensare che la formulazione
dell’art. 34 c.p.p. sia anche il frutto delle perduranti disastrose condizioni
organizzative dei tribunali italiani, è un dato davvero molto triste; tuttavia,
è realtà storica e documentata. Tanto è vero che la Corte Costituzionale,
dichiarando per l’undicesima volta illegittimo il secondo comma dell’art. 34
(nella parte in cui non prevede l'incompatibilità alla funzione di giudizio in
dibattimento del giudice che, come componente del tribunale del riesame, si sia
pronunciato sull'ordinanza che dispone una misura cautelare personale nei
confronti dell'indagato o dell'imputato), soggiunse: «Nell'assumere la sua decisione, questa Corte è pienamente consapevole
delle difficoltà di ordine pratico che, come conseguenza della propria
giurisprudenza, possono derivare alla formazione concreta degli organi
giudicanti. […] Alle anzidette difficoltà, con appropriati interventi e riforme
di ordine normativo e organizzativo, devono porre rimedio altre istanze
costituzionali alle quali appartengono i relativi doveri e le relative
responsabilità. Per questo, nel pervenire alla presente, ulteriore pronuncia
d'incostituzionalità in difesa del principio del giusto processo e
dell'imparzialità e della terzietà del giudice, questa Corte deve rivolgere,
anzi rinnovare (v. sent. n. 496 del 1990) un pressante invito agli organi
competenti affinché pongano mano con urgenza a quegli interventi e a quelle
riforme che gli indisponibili principi della Costituzione richiedono in ordine
al buon funzionamento della giurisdizione penale.» (C. Cost., 24.4.1996, n.
131, in GI, I, 1996, 484).
3.
Il minimo comune denominatore
degli interventi additivi della Consulta
Nonostante un atteggiamento
inutilmente protezionista da parte della Cassazione, la quale più volte e fin
dagli ultimi anni di vigenza dell’abrogato codice di procedura ha
pedantescamente rimarcato che le norme sulla incompatibilità hanno natura
eccezionale e sono di stretta interpretazione - in quanto limitative della
idoneità al giudizio del giudice - onde è preclusa la loro applicazione per via
analogica (con riferimento alla normativa del codice abrogato: C. Cost.,
30.12.1993, n. 473, in CP, 1994, 1160; C., Sez. IV, 17.8.1989, Muletto, in CP,
1990, 1955, n. 1566; in relazione all'art. 34 del codice del 1988: C., Sez. VI,
10.3.1994, Ferlin, in Mass. Uff., 198490; C., Sez. III, 18.5.1993, Ferlito, in
CP, 1995, 987, 600), più voci in dottrina sottolinearono, all’indomani
dell’entrata in vigore dell’attuale codice, come sarebbero bastate anche
soltanto un paio di dichiarazioni di illegittimità costituzionale dell’art. 34
c.p.p. per ottenere un clamoroso “effetto di trascinamento”. Ogni successiva
modificazione dell’area della incompatibilità avrebbe difatti determinato,
quasi automaticamente, la necessità di ulteriori interventi della Corte a
tutela del principio di imparzialità, al fine di realizzare un progressivo
riallineamento di posizioni analoghe; ed una volta aperta una prima breccia
nello sbarramento creato dall’elencazione tassativa, anche la Corte di
Cassazione sarebbe stata indotta a rivedere le proprie posizioni.
L’effetto di trascinamento, in
effetti, vi è stato e come.
Fin dalla prima declaratoria
d’illegittimità costituzionale (C. Cost., 26.10.1990, n. 496, in CP, II, 1991,
1), la Consulta scolpì in modo lapidario il logos
destinato a
fondare ogni successivo intervento additivo: ogniqualvolta l’adozione di un
atto “decisionale” implica, da parte del giudice, una valutazione non meramente
formale in merito alla regiudicanda e tale da ingenerare un convincimento a
riguardo, è giocoforza che si stabilisca quella che dai più è indicata quale
“forza di prevenzione”. In altre parole, il giudice sarebbe naturalmente
portato a mantenere fermo il proprio personale convincimento in merito alla
fondatezza o meno del tema d’accusa, e pertanto ne risulterebbe compromessa la
serenità di giudizio e la debita terzietà qualora egli stesso fosse chiamato a
statuire in merito alla regiudicanda in altro grado o fase del processo. Fin
dal primo intervento, dunque, la Corte Costituzionale sopperiva alle deficienze
del legislatore, desumendo innanzitutto dai principi generali dell’ordinamento
una categoria generale d’incompatibilità endoprocessuale, in tal modo revocando
in dubbio ogni asserita insuperabilità dell’elencazione tassativa.
Un’impostazione di pensiero, questa, mantenuta ferma in tutte le successive
declaratorie d’incostituzionalità dell’art. 34 comma II. Cosa, infatti,
accomuna la situazione del G.i.p. che ha prima formulato l’imputazione coatta e
poi è stato chiamato a giudicare l’imputato con rito abbreviato nell’ambito
dello stesso processo, a quella del G.u.p. che, all’esito di precedente
dibattimento, abbia disposto in qualità di giudicante la tramissione degli atti
al P.M. a norma dell'art. 521 c.p.p., avendo accertato che il fatto è diverso
da come descritto nel decreto che dispone il giudizio? Minimo comune
denominatore è costituito sempre e comunque dall’insorgenza del pregiudizio,
circostanza che non può non minare la sacrosanta serenità cognitiva e
valutativa dell’organo giudicante.
Il secondo comma dell’art. 34
c.p.p., dunque, andrebbe letto (e riscritto!) all’incirca in tal modo: «il
giudice che in una fase del procedimento ha compiuto, in ragione del proprio
ufficio, valutazioni circa la fondatezza o meno dell’imputazione, formandosi un
convincimento sulla responsabilità dell’imputato, non può in alcun modo
statuire o contribuire alle statuizioni riguardanti il merito dell’accusa
all’interno dello stesso procedimento e nei confronti del medesimo imputato».
Solo una clausola di tale genericità può consentire al giudice di ritenersi o
meno incompatibile con la propria funzione, in tutta serenità e senza dover
fare per forza i conti con dei parametri legislativi troppo stringenti e
quantomai inopportuni; del resto, l’obbligo d’astensione nei casi di
incompatibilità grava sul giudice stesso, quindi in ultima analisi è proprio il
magistrato ad essere il primo difensore del principio d’imparzialità. La Corte
Costituzionale, dal canto suo, non ha mai ripudiato apertis verbis il principio di tassatività; nel caso di specie l’ha
soltanto doverosamente ignorato, dimostrando abilità nel ricorrere all’analogia
juris, rifuggendo parimenti il
rischio dell’intervento ermeneutico extra
legem.
4.
L’imparzialità del G.u.p. non
conosce mutazioni genetiche, né vi dipende
Con la sentenza in commento, la
Corte Costituzionale ha dichiarato l’art. 34 comma II c.p.p. illegittimo (per
contrarietà agli artt. 3, 24 e 111 Cost.) “nella
parte in cui non prevede l’incompatibilità alla trattazione dell’udienza
preliminare del giudice che abbia ordinato, all’esito di precedente
dibattimento, riguardante il medesimo fatto storico a carico del medesimo
imputato, la trasmissione degli atti al pubblico ministero, a norma dell’art.
521, comma 2, del codice di procedura penale”.
L’iter logico della motivazione
riprende le ragioni giustificative di due precedenti declaratorie
d’illegittimità, relative sempre all’art. 34 c.p.p. e riguardanti casi
analoghi. Nel lontano 1994, la Consulta fu chiamata a stabilire se, ed in che
termini, l’adozione di ordinanza ex art. 521 II comma c.p.p. implicasse una
valutazione di merito tale da poter pregiudicare la serenità di giudizio,
laddove lo stesso giudice-persona fosse chiamato, nel dibattimento “bis”, a
statuire sul mutato tema d’accusa. Si disse (e sul punto non riteniamo possano
esservi sostanziali divergenze) che le valutazioni che inducono il giudice a
ritenere il fatto diverso da quello ipotizzato e cristallizzato nel decreto che
dispone il giudizio, non potevano essere altro che il frutto di una penetrante
delibazione del merito della regiudicanda; saremmo portati ad aggiungere che
tale caratteristica sia comune alla stragrande maggioranza delle valutazioni
del fatto compiute dal giudice del dibattimento, la cui precipua funzione è
convincere se stesso della colpevolezza o meno dell’imputato, al di là di ogni
ragionevole dubbio (art. 530 c.p.p.). E’, dunque, la stessa categoria
regolativa del giudizio che regge la cognizione dibattimentale ad implicare
indefettibilmente una penetrante valutazione nel merito della regiudicanda;
sempre, ed anche ove ciò conduca al riconoscimento della sostanziale diversità
del fatto. D’altro canto l’art. 521 II comma, oltre a garantire il diritto di
difesa dell’imputato circa il fatto diverso contestato, è espressione del
principio secondo cui il tema d’accusa, specificandosi in modo direttamente
proporzionale al progredire dell’iter processuale, debba essere quanto più
possibile specularis imago
dell’avvenimento naturalistico da cui prende le mosse: il processo ricostruisce
la realtà tramite la penetrante valutazione delle prove.
Ne discende, secondo la Corte,
che: «Un dibattimento "bis"
riguardante il medesimo fatto storico [rectius:
la medesima vicenda processuale, in quanto il fatto in senso stretto è stato
ritenuto diverso] e il medesimo imputato
non può, pertanto, non essere attribuito alla cognizione di altro giudice,
trattandosi della stessa ratio di tutela della imparzialità e serenità di
giudizio che informa la regola posta dall'art. 34, comma 1, cod. proc. pen.,
affermativa della incompatibilità del giudice che abbia pronunciato sentenza in
un precedente grado di giudizio relativamente al medesimo procedimento.»
(C. Cost., 30.12.1994, n. 455 , in FI, I, 1995, 2078).
Tanto vale in sede
dibattimentale, ove l’organo giudicante è chiamato a statuire in termini di
colpevolezza/innocenza. L’udienza preliminare, invece, ha una funzione ben
diversa rispetto al dibattimento. Lungi dall’essere sede naturale di giudizi
espressi in termini di colpevolezza/innocenza, essa ha la precipua funzione di
evitare che accuse sostanzialmente infondate approdino inutilmente al vaglio
dibattimentale, essendo governata da una regola di giudizio assolutamente
diversa rispetto a quella che anima il momento dibattimentale. La troviamo
scolpita a chiare lettere nel comma III dell’art. 425 c.p.p.: “Il giudice
pronuncia sentenza di non luogo a procedere anche quando gli elementi acquisiti
risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere
l'accusa in giudizio.” E’ del
tutto evidente la simmetria funzionale con la regola di giudizio a base dell’archiviazione
per infondatezza della notizia di reato (art. 125 disp. att. c.p.p.): il
giudice dell’udienza preliminare interviene correggendo il P.m. che ha
esercitato l’azione penale in difetto dei requisiti di legge, previsti a
contrario dall’art. 125 disp. att., dunque quando gli elementi di prova a
suffragio della formulanda imputazione non vi siano, o risultino
assolutamente scarni.
Nell’intento
di potenziarne la funzione di filtro, il legislatore è intervenuto più volte
sul tessuto normativo dell’udienza preliminare, irrobustendone da un lato gli
spazi istruttori ed ampliando dall’altro lo spettro causale dei provvedimenti
conclusivi. Di tali mutamenti dà atto anche la sentenza in commento, ove
richiama integralmente le motivazioni della pronuncia n. 224/2001 con la quale
venne dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 34 c.p.p. “nella
parte in cui non prevede l'incompatibilità alla funzione di giudice
dell'udienza preliminare del giudice che abbia pronunciato o concorso a
pronunciare sentenza, poi annullata, nei confronti del medesimo imputato e per
lo stesso fatto”. In seguito agli interventi apportati con legge n.
479/1999 (cosiddetta “Legge Carotti”) ai fini del proscioglimento preliminare,
ad esempio, il giudice può valutare anche la sussistenza di circostanze
attenuanti: attività
naturalmente finalizzata alle decisioni da prendere in chiusura del processo
penale, quando si statuisce sulla colpevolezza o meno dell’imputato e si
determina la natura ed il quantum
dell’eventuale pena da scontare. Inoltre il G.u.p. può (nonostante il parere
contrario della dottrina maggioritaria e della Suprema Corte) prosciogliere per
difetto d’imputabilità, quando non ne consegua l'applicazione di una misura di
sicurezza; ed in merito va ricordato che in un momento antecedente l’intervento
“riformatore” del 1999, la stessa Corte Costituzionale dichiarò l’illegittimità
dell’art. 425 c.p.p. nella parte in cui consentiva la pronuncia del
proscioglimento ove fosse risultata evidente la non imputabilità del soggetto,
motivando sul punto in tali termini: «[…] il sistema delineato dall'art. 425 del codice di procedura
penale finisce infatti per imporre al giudice la pronuncia di una sentenza di
non luogo a procedere per difetto di imputabilità […] all'esito
e sulla base di un accertamento di responsabilità che si fonda solo sull'etereo
presupposto della non evidente infondatezza dell'addebito [regola di giudizio a tutt’oggi
immutata, n.d.r.], risultando in tal modo palesemente sviliti i principi e le
affermazioni che hanno sostenuto la giurisprudenza costituzionale […] La norma va dunque dichiarata
costituzionalmente illegittima […] in quanto la persona non imputabile viene ad
essere per ciò solo privata del dibattimento e della conseguente possibilità di
esercitare appieno il diritto alla prova sul merito della regiudicanda, con
correlativa irragionevole compressione del diritto di difesa che non può certo
ritenersi bilanciata da contrapposte esigenze di economia processuale.» (C. Cost., 10.2.1993, n. 41, in Cass. Pen., 1993, 1080).
Vien da sé che, allorquando la
Consulta riconosce (in modo avventato, a nostro parere) la possibilità di
prosciogliere in sede preliminare per difetto d’imputabilità, non può non
affermare – a mo’di corollario – che in tale sede è ormai possibile una
valutazione ficcante nel merito della regiudicanda, in modo non difforme da
quanto avviene di norma al dibattimento; soprattutto all’indomani
dell’irrobustimento degli spazi istruttori (introduzione dell’art. 421 bis e
modifiche al 422) apportato sempre dall’intervento normochirurgico del 1999. La
Corte Costituzionale prende atto, dunque, delle modifiche legislative medio tempore intervenute sullo statuto
normativo dell’udienza preliminare ritenendola, di conseguenza, sede
pregiudicabile.
Tuttavia, affermare che la
serenità di giudizio del G.u.p. sia pregiudicabile sol perché l’udienza
preliminare è divenuta negli anni una sede in cui è possibile valutare il fatto
di reato penetrandovi in modo ficcante – in modo non dissimile rispetto ad
altre fasi processuali – in verità non convince troppo. Possibile che,
all’interno di una fase del processo, il grado di tutela di un diritto
fondamentale del cittadino debba essere considerata una variabile dipendente
dalla qualità della cognizione potenziale (a tal proposito, si ricordi che le
attività ex artt. 421 bis e 422 sono meramente eventuali) del
giudice? A tal fine, si rende necessaria una premessa.
Come già ricordato, l’art. 171,
d.lg. 19.2.1998, n. 51, contenente norme in materia di istituzione del giudice
unico di primo grado, ha aggiunto nell'art. 34 il comma 2 bis, che così
dispone: "Il giudice che nel
medesimo procedimento ha esercitato funzioni di giudice per le indagini
preliminari non può emettere il decreto penale di condanna, né tenere l'udienza
preliminare; inoltre, anche fuori dei casi previsti dal co. 2, non può
partecipare al giudizio". Nella Relazione illustrativa al decreto
legislativo (par. 4.2.) è chiarito che la disposizione è collegata alla
direttiva contenuta nell'art. 1, 1° co., lett. h), l. delega 16.7.1997, n. 254,
che impegnava il Governo a "prevedere
che il giudice per le indagini preliminari sia diverso dal giudice dell'udienza
preliminare apportando le necessarie modifiche alle disposizioni dell' art. 7
ter, ord. giud., approvato con r.d. 30.1.1941, n. 12, e successive
modificazioni.”; direttive tutto sommato in linea con quell’orientamento
emerso durante i lavori preparatori del codice, in seno alla Commissione
parlamentare per la compilazione del progetto definitivo, che, nel primo parere
datato 1987 (come ricordato nel paragrafo 2 del presente commento) aveva
segnalato l'opportunità di prevedere l’incompatibilità a partecipare al
giudizio non solo del giudice che ha emesso il provvedimento conclusivo
dell'udienza preliminare, ma anche del giudice che ha emesso un provvedimento
(frutto di chiare valutazioni in merito al presunto fatto di reato) durante le
indagini preliminari.
Dunque, fin dall’“anno zero”
dell’udienza preliminare fu avvertita con particolare intensità l’esigenza di
arricchire il sistema con strumenti atti a garantire anche l’imparzialità del
G.u.p., in un momento in cui gli interventi della Legge Carotti e le innovative
elaborazioni della Consulta erano ancora “in
mente dei”. A prescindere dalla mutata qualità del “giudizio” tipico della
fase, la funzionalità del filtro processuale rappresentato dall’udienza
preliminare è pienamente garantita soltanto se l’organo giudicante sia comunque
scevro da qualsiasi tipo di pregiudizio sul merito dell’imputazione. Stabilire
se gli elementi di prova forniti dalla Pubblica accusa siano in grado o meno di
sostenere l’accusa in un eventuale futuro giudizio dibattimentale, implica
comunque una valutazione sul merito della regiudicanda da dover maturare con la
massima neutralità; e bisogna altresì ricordare che la sentenza di non luogo a
procedere ha l’effetto immediato di arrestare il processo ed è suscettibile di
acquistare forza simile alla res judicata,
se non viene revocata dal G.i.p. ex
art. 434 c.p.p.
Benché il giudizio preliminare
abbia natura e finalità meramente “di rito”, statuire in termini di fondatezza
o meno dell’imputazione, ex art. 425
comma III, implica comunque responsabilità non di poco momento, presupponendo
un vaglio critico parimenti incontaminato tanto da convincimenti maturati in
sede d’indagine, quanto da valutazioni compiute in sede dibattimentale in
un’ottica di regressione del procedimento. Non hanno alcun tipo d’incidenza le
mutazioni genetiche intervenute sulla natura qualitativa del giudizio preliminare,
e di questo la Consulta avrebbe dovuto prenderne atto: la regola di giudizio da
osservare era ed è quella di cui al comma III dell’art. 425, ed è soddisfatta
solo se il G.u.p. ha l’anima candida. Il cittadino ha diritto ad avere, anche
quale semplice interlocutore, un giudice equanime, e una tale qualità deve
essergli garantita dall’ordinamento giuridico in ogni fase del procedimento
penale. E’una questione di drittwirkung
che nasce con l’ordinamento costituzionale democratico, prima ed
indipendentemente dalla “legge Carotti” e dalla riscrittura dell’art. 111 della
Carta Costituzionale.
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