La tentata estorsione può concorrere con la rapina
Cassazione,
Sez. II, 01/10/2020 - dep. 05/02/2021), n.4634
La
massima
II
delitto di tentata estorsione può concorrere con quello di rapina qualora le
relative condotte, pur sviluppandosi entro un unico contesto spazio-temporale,
abbiano ad oggetto beni distinti e siano sorrette da parimenti distinte
intenzionalità e risoluzione volitiva. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto
il concorso di reati in relazione alla condotta di un giovane che, uscito con
una ragazza, non appena ella era salita in macchina, le aveva rivolto pressanti
richieste di denaro, al di lei rifiuto aggredendola e procurandole lesioni
personali, e, dopo il ripetersi delle aggressioni e dei tentativi della ragazza
di uscire dalla macchina, poco prima di riaccompagnarla a casa, con successiva
ed autonoma determinazione, le aveva sottratto la borsa).
RITENUTO
IN FATTO
Con
sentenza del 6 maggio 2019 la Corte d'appello di Roma, in riforma della
sentenza emessa dal Tribunale di Cassino il 13 settembre 2018, ha assolto
S.C.N. dal reato di cui agli artt. 81 cpv, 56 e 629 c.p. (capo G), commesso in
danno di D.P.M., perchè il fatto non sussiste; ha dichiarato non punibile, ai
sensi dell'art. 649 c.p., l'imputato per il reato di cui al capo G della
rubrica, commesso in danno della madre P.M.; ha rideterminato la pena per le
residue imputazioni.
Avverso
la sentenza d'appello ha proposto ricorso per cassazione il difensore
dell'imputato, che ha dedotto i seguenti motivi:
1)
erronea applicazione della legge penale e vizi della motivazione in ordine al
reato di cui al capo A della rubrica, per avere la Corte territoriale disatteso
la doglianza difensiva, tesa al riconoscimento dell'assorbimento del reato di
tentata estorsione di somme di denaro, cui al capo A), in quello di rapina
della borsa detenuta da S.D.C.M.G. di cui al capo B). Secondo la Corte
d'appello, le due condotte avevano ad oggetto beni distinti (denaro e borsa) e
erano sostenute da autonoma e distinta intenzionalità e risoluzione volitiva ma
la diversità dei beni sarebbe apparente e tutt'altro che sostanziale, avendo
l'imputato appreso la borsetta al fine della ricerca del denaro, e la sequenza
dei fatti dimostrerebbe che le due condotte sarebbero state accompagnate da
identica intenzionalità;
2)
erronea applicazione della legge penale e vizi della motivazione in ordine al
reato di cui al capo C) della rubrica, per non esserci correlazione tra
l'imputazione e la sentenza, atteso che "l'atto di afferrare con forza la
mano della ragazza e tentare di portarla sul pene per farsi toccare", per
il quale è intervenuta la condanna, non sarebbe neppure contestato. Inoltre, la
Corte territoriale avrebbe omesso di considerare che l'imputato supponeva che
vi fosse l'implicito consenso della ragazza, essendo la sua fidanzata ed
essendosi appartati appositamente e consensualmente per consumare momenti
intimi;
3)
erronea applicazione della legge penale e vizi della motivazione in ordine al
reato di cui al capo D) della rubrica, per avere la Corte ritenuto configurato
il reato di sequestro di persona, pur essendo la privazione della libertà della
persona offesa protrattasi solo per il tempo necessario alla consumazione della
rapina.
All'odierna
udienza pubblica è stata verificata la regolarità degli avvisi di rito;
all'esito, le parti presenti hanno concluso come da epigrafe e questa Corte,
riunita in camera di consiglio, ha deciso come da dispositivo in atti,
pubblicato mediante lettura in udienza.
CONSIDERATO
IN DIRITTO
1.
Il ricorso è integralmente inammissibile.
1.1
Il primo motivo è manifestamente infondato.
Nella
sentenza impugnata si afferma che la persona offesa era uscita con l'imputato,
il quale, appena ella era salita in macchina, le aveva rivolto richieste di
denaro e, a fronte del rifiuto ricevuto, l'aveva aggredita ed offesa,
procurandole anche lesioni. Dopo il ripetersi di violente aggressioni fisiche e
dei tentativi della ragazza di uscire dall'autovettura, l'imputato, poco prima
di riaccompagnarla a casa, con successiva ed autonoma determinazione, le aveva
sottratto la borsa.
Secondo
la Corte territoriale, le due condotte avevano ad oggetto beni distinti (denaro
e borsa) ed erano sostenute da autonoma e distinta intenzionalità e risoluzione
volitiva, così da doversi configurare il concorso dei reati.
Siffatta
soluzione si appalesa corretta.
A
tal riguardo deve premettersi, in linea generale, che la consumazione del reato
si verifica ogniqualvolta, attraverso la condotta astrattamente descritta nel
precetto, sia realizzata l'offesa tipizzata e sia leso l'interesse protetto
dalla norma (c.d. evento giuridico).
Nel
caso in esame si sono realizzati entrambi gli eventi giuridici descritti dalle
norme incriminatrici del tentativo di estorsione e della rapina. Dapprima,
infatti, l'imputato ha compiuto atti idonei, diretti inequivocamente a coartare
la libera determinazione della persona offesa in relazione al denaro; di
seguito, a distanza anche di ore, le ha sottratto la borsa, esercitando sulla
vittima una violenza diretta e ineludibile.
Deve
allora affermarsi che correttamente il Collegio del merito ha ritenuto
sussistente il concorso dei reati di tentata estorsione e di rapina.
1.2
Il secondo motivo è manifestamente infondato nella parte in cui si è dedotto il
difetto di correlazione tra il fatto contestato e quello per cui l'imputato ha
riportato la condanna.
Si
rammenta che, in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza,
per aversi mutamento del fatto, con conseguente violazione dell'art. 521
c.p.p., occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali,
della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta, prevista
dalla legge, in modo che si configuri un'incertezza sull'oggetto
dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della
difesa. L'indagine, volta ad accertare la violazione del principio suddetto,
non va di conseguenza esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente
letterale tra contestazione e sentenza, perchè, vertendosi in materia di
garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando
l'imputato, attraverso l'iter del processo, sia venuto a trovarsi nella
condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione (S.U.,
17 maggio 2010 n. 36551, Carelli, Rv. 248051).
La
nozione strutturale di "fatto", contenuta nelle disposizioni di cui
agli artt. 521 e 522 c.p.p., va perciò coniugata con quella funzionale, fondata
sull'esigenza di reprimere solo le effettive lesioni del diritto di difesa,
posto che il principio di necessaria correlazione tra accusa contestata
(oggetto di un potere del pubblico ministero) e decisione giurisdizionale
(oggetto del potere del giudice), risponde all'esigenza di evitare che
l'imputato sia condannato per un fatto, inteso come episodio della vita umana, rispetto
al quale non abbia potuto difendersi (Sez. 1, 18 giugno 2013 n. 35574, Rv.
257015).
Nel
caso di specie, nell'imputazione era ascritto all'imputato di avere costretto
la ragazza a toccarle il pene con la testa e in sentenza si è affermato che
egli aveva afferrato con forza la mano della ragazza e cercato di portarla sul
proprio pene, nel frattempo denudato.
Nell'uno
e nell'altro caso il nucleo essenziale dei fatti è il medesimo: avere costretto
la ragazza a toccargli il pene, restando irrilevante se ciò fosse avvenuto con
la testa o con la mano della ragazza e non avendo siffatto particolare della
testa o della mano inciso in alcun modo sull'esercizio del diritto di difesa
della parte.
E'
dunque evidente che nessun difetto di correlazione tra accusa e sentenza può
dirsi esistente.
1.2.1
Omissiva di un confronto con la motivazione della sentenza impugnata è la
censura relativa al consenso della ragazza, supposto dall'imputato.
La
Corte d'appello, infatti, ha rimarcato che la persona offesa aveva manifestato
la sua volontà di andare via dalla macchina e "l'atto di afferrare con
forza la mano della ragazza e tentare di portarla al pene, per farsi toccare,
evidenziano la mancanza del consenso della donna e della supposizione da parte
dell'imputato dell'implicito consenso della persona offesa".
Trattasi
di argomentazioni che sfuggono ad ogni rilievo in questa sede, in quanto
corrette e logiche. Con esse il ricorrente non si è confrontato specificamente,
così che le doglianze hanno omesso di assolvere la tipica funzione di una
critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Sez. 6, n. 20377
dell'11/3/2009, Rv. 243838).
1.3
Anche il terzo motivo è privo di specificità.
Secondo
la ricostruzione effettuata nella sentenza impugnata, la persona offesa è stata
privata della libertà di movimento per un periodo di oltre sei ore, durante le quali
ha subito efferate violenza fisiche, ponendo in essere reiterati tentativi di
fuga, in occasione dei quali veniva afferrata dall'imputato e nuovamente
percossa. La privazione della libertà personale si è protratta fino alle ore
2,20, dopo che la ragazza era uscita di casa alle 19,40 e solo poco prima di
riaccompagnare la persona offesa l'imputato si è impossessato della borsa.
Come
correttamente ritenuto dal Collegio del merito, il reato di sequestro di
persona ha assunto carattere di reato autonomo rispetto alla rapina, essendosi
protratto per un periodo di tempo ben superiore al compimento della rapina
ancora da compiere e non essendo la privazione della libertà finalizzata al
compimento della rapina.
Così
argomentando, il Giudice territoriale ha fatto corretta applicazione dei
principi enunciati da questa Corte (Sez. 3, n. 55302 del 22/9/2016, Rv.
268534), secondo cui il delitto di sequestro di persona concorre con quelli di
violenza sessuale o di rapina, nel caso in cui la privazione della libertà
personale si protrae, quanto al delitto di cui all'art. 609-bis c.p., nel tempo
anteriore o successivo alla costrizione necessaria a compiere gli atti sessuali
e, quanto al delitto di cui all'art. 628 c.p., anche dopo l'avvenuto
impossessamento della "res", ma per un tempo apprezzabile e senza
necessità ai fini della consumazione della rapina.
2.
La declaratoria di inammissibilità totale del ricorso comporta, ai sensi
dell'art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese
processuali, nonchè - apparendo evidente che il medesimo ha proposto il ricorso
determinando la causa di inammissibilità per colpa (Corte Cost., 13 giugno 2000
n. 186) e tenuto conto dell'entità di detta colpa - al versamento della somma
indicata in dispositivo in favore della Cassa delle Ammende a titolo di
sanzione pecuniaria.
P.Q.M.
dichiara
inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle ammende.
Così
deciso in Roma, udienza pubblica, il 1 ottobre 2020.
Depositato
in Cancelleria il 5 febbraio 2021
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