Il diritto di satira
della Dott.ssa Alessandra Arfè (Avvocato abilitato al Patrocinio)
Il Diritto di Satira.
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Con
sentenza del 31 gennaio 2013 la Suprema Corte di Cassazione annullava la decisione
di secondo grado emessa dalla Corte di Appello di Roma, che in riforma della pronuncia
di I grado assolveva gli imputati dal reato di diffamazione ex art. 595 c.p.
Invero, la condotta diffamatoria posta
in essere dagli autori del reato – disegnatore di una vignetta e direttore
della testata giornalistica- era consistita nell’aver pubblicato, su di un
quotidiano a diffusione nazionale, una illustrazione satirica, irrisoria e
denigratoria della reputazione della persona offesa.
Il
Tribunale di Roma aveva, prima facie,
non solo condannato gli imputati alle pene previste dalle legge, ma disponeva
altresì in favore della persona offesa costituitasi parte civile, un cospicuo
risarcimento del danno.
In effetti,
più che la caricatura fumettistica, l’offesa all’onorabilità si ravvisava nella
didascalia di corredo alla vignetta che recitava: “il cav. S. Banana vuole indietro
la sua onorabilità e la mazzetta che Mediaset ha imprestato alla Finanza”.
Prima di approfondire,
con auspicato senso critico, gli aspetti processual- penalistici che
caratterizzano la vicenda, è opportuno un preliminare riferimento alla
definizione di stampa.
Invero, l’art.
1 della l. 8 febbraio 1948 n. 47 recante “Disposizioni sulla stampa”, annovera
sotto la definizione di stampa o stampati “tutte
le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o
fisico-chimici, in qualunque modo destinate alla pubblicazione”.
Dall’ambito
delle definizioni ci si sposterà nell’ambito delle azioni.
Il reato di diffamazione verrà a
concretarsi laddove l’autore ponga in essere un comportamento tale da offendere
la reputazione di un soggetto “terzo” inteso come un individuo la cui presenza
non è possibile attestare al momento della propalazione offensiva e tale da
incidere ed avere riflessi oggettivi sull’onore della stessa.
Pertanto, se per il configurarsi del reato di ingiuria di cui all’art. 594 c.p. - è richiesta la presenza della persona offesa e l’offesa deve assumere un risvolto esclusivamente soggettivo e personale, per il reato di diffamazione tali elementi sono travalicati dalla maggiore complessità della struttura di tale fattispecie che però assume una portata residuale.
Di non
poco conto è l’inciso introduttivo di cui all’art. 595 c.p. che delinea la
diffamazione come quel reato commesso da “chiunque, fuori dei casi indicati
dall’articolo precedente […]
offende l’altrui reputazione”.
Orbene, ogni
fattispecie criminosa incontra la proprie cause di giustificazione.
La
diffamazione si sottrae alle censure giurisdizionali qualora ricorrano il
consenso dell’avente diritto (art. 50 c.p.), l’adempimento di un dovere o
l’esercizio di un diritto (art. 51 c.p.).
L’ art. 21
Cost. individua il parametro costituzionale cui ricorrere per dare forma alla
scriminante di cui all’art. 51 c.p. nei casi di diffamazione.
Gli esempi
topici sono rappresentati dal diritto di cronaca,
dal diritto di critica ed infine dal
diritto di satira.
In
un’ottica di gradazione delle scriminante, il diritto di cronaca è, nella sua
declinazione più stringente, la mera
divulgazione fattuale e cronologica di accadimenti. Rappresenta la
narrazione oggettiva nella sua manifestazione massima, contrariamente a quanto
previsto per il diritto di critica che attiene, invece, all’espressione
e alla divulgazione di un sentito, che risponde ad esigenze ed opinioni più che
mai di natura e rilievo soggettivo.
Sia il cronista che il critico, dovranno però procedere ad un pedissequo preliminare accertamento dei fatti che intendono divulgare.
Essi, con
le proprie credenziali professionali, avranno l’onere di veicolare un’opinione
già precedentemente suffragata da riferimenti accorti, fondati e accreditati,
qualora non vogliano incorrere nel reato di diffamazione.
I
parametri che dovrà rispettare il giornalista saranno quelli della verità, della
notizia, dell’interesse pubblico della stessa e del senso di civiltà nel tenore
linguistico utilizzato.
Ampi
margine di manovra sono offerti
all’attore satirico.
Con la sua
libertà di espressione sprovvista di lacci e lacciuoli, approccerà alla società
con maggiore spirito critico.
Potrà così
diffondere il seme della riflessione sociale e della tolleranza verso il
potere, rifuggendo i limiti imposti al
giornalismo in merito al diritto di cronaca prima, e di critica poi.
Ritornando
al narrato in sentenza, la vicenda trascina con sé un’evidente portata
mediatica in quanto è nota ai più la reputazione del soggetto protagonista della
stessa, ed ancor più nota è la consapevolezza del suo peso istituzionale.
Il riferimento storico riguardava una sentenza
della Cassazione nella quale il Cavaliere summenzionato era stato assolto nel
processo per le tangenti c.d. videotime, confermando la condanna della
Fininvest.
Tale è la
vicenda ispiratrice della vignetta sul quotidiano.
Silvio
Berlusconi, all’esito del processo aveva dichiarato di aspettarsi che la stampa
gli restituisse la sua onorabilità.
Preme
sottolineare, però, che la vignetta si riferiva alla condanna della società Fininvest
di Silvio Berlusconi, non già Mediaset .
La vicenda
veniva posta all’attenzione del Giudice della Suprema Corte.
La parte
civile nel processo di primo grado, in cui gli imputati risultarono per il giudice
di prime cure colpevoli del reato ascritto, fu costretta a depositare ricorso
per Cassazione in quanto, la Corte di Appello di Roma aveva assolto gli
imputati poiché la condotta criminosa posta in essere dagli stessi, fu
considerata offensiva della reputazione dell’on. Berlusconi, non già delle sue
società.
In
effetti, argomenta la Corte di II grado, la finalità derisoria rappresentata
dalla caricatura vignettistica era rivolta non a Mediaset, ma propriamente a
Silvio Berlusconi.
Per questo
particolare di non poco conto veniva escluso dal giudice di Appello il dolo per
erronea individuazione.
Esso non
veniva considerato quindi componente costitutiva di una volontà consapevolmente
sprezzante della moralità della persona offesa.
Parimenti, neanche si riteneva sussistere la colpa, trattandosi di condotta assunta in totale mancanza di coscienza e volontà, in effetti il comportamento degli imputati era consistito “in una sorta di caso fortuito, anzi di forza maggiore, non essendovi alcun mezzo psicologico o materiale per evitare il lapsus in questione”.
Evidentemente,
non era individuabile nella condotta degli agenti il requisito soggettivo del
dolo, elemento psicologico richiesto dalla norma per la configurazione del
reato e, pertanto, la Corte assolveva gli imputati con la formula :“il fatto non costituisce reato”.
In realtà,
la Corte di Appello nella motivazione tracciava un solco che il Giudice Supremo
avrebbe prontamente ricompattato nella propria sentenza, ri- delineando i
confini della satira.
Interrogata
sul punto, la Suprema Corte risponde.
Nell’accogliere
i motivi di ricorso presentati dalla parte civile, dichiarandoli fondati, ha
precisato, “il giudizio penale, in
assenza di ricorso del Pubblico Ministero, non è più modificabile e, quindi,
resta ferma l'assoluzione degli imputati dai reati loro rispettivamente
contestati pronunciata dalla Corte di merito. Il ricorso della parte civile
Mediaset spa è stato proposto ai sensi dell'art. 576
c.p.p. e,
quindi, ai soli effetti civili”.
Esauriti brevi spunti di natura
procedurale, la Corte di Cassazione dichiarava prontamente come si fosse in
presenza dell’esercizio di un diritto costituzionalmente tutelato, ovvero del
diritto di satira.
Parte della dottrina evidenzia la c.d.
doppia natura del diritto di satira, laddove i relativi orientamenti
oscilleranno sempre in un bilanciamento tra i parametri di cui agli artt. 9 e
33 Cost. nel far prevalere l’aspetto creativo, e dell’art. 21 Cost. nella sua
morfologia più propriamente informativa.
Il ricorrente lamentava (motivi che si riportano per riassunto):
1) la
inosservanza o erronea applicazione dell'art. 51 c.p. in ordine al
riconoscimento della scriminante del diritto di critica;
2) la
contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione relativamente alla
possibilità di escludere il dolo eventuale, in quanto in motivazione la Corte
aveva sostenuto come fosse intuitivo il riferimento agli amministratori della
Fininvest e non di Mediaset, in quanto tale circostanza era stata riportata da
tutti i quotidiani.
La Corte
ritiene fondati i due motivi e pertanto prosegue nell’affermare che: “in questa sede non è in discussione il
diritto di satira, che è una forma artistica che mira all’ironia sino al
sarcasmo ed alla irrisione di chi eserciti un pubblico potere, espressione
artistica che merita tutela ed il cui esercizio è incompatibile con il
parametro della verità”
Anche la
summenzionata dottrina risulta compatibile con tale orientamento dovendosi rispettare, in quanto alla satira,
esclusivamente un criterio c.d. di continenza, non potendo poi pretendere di
invocare sic et simpliciter la
scriminante di cui all’art. 51 c.p. anche per le condotte volte a suscitare
dileggio e disprezzo dell’onore e della reputazione della persona offesa.
Ma ciò di
cui si doleva la ricorrente, elemento poi riconosciuto anche dalla Suprema
Corte, riguardava il contenuto “anomalamente informativo” della vignetta
finalizzato alla diffusione di un messaggio alterato, consistente nell’aver Mediaset versato una mazzetta alla Finanza, fatto
pacificamente non vero perchè la sentenza summenzionata “videotime” riguardava
la società Fininvest e non Mediaset.
E
sul punto la Corte fu categorica nell’affermare che “il diritto di satira non c'entra nulla
perchè oggetto della satira era Silvio Berlusconi
e non la società Mediaset”.
Il
principio elaborato dalla Corte sul punto riduceva la linea di confine tra
cronaca, critica e satira.
Pertanto,
se un margine elevato di autonomia era offerto all’autore di un pezzo satirico,
lo stesso non avrebbe dovuto né potuto sconfinare nel reale, se non avesse
voluto allo stesso tempo, barattare tal autonomia con l’obbligo del rispetto
dei parametri di verità, correttezza di linguaggio e interesse pubblico della
vicenda da diffondere.
A
chiosa dello scritto, prontamente è fornito il principio di diritto che in
ultima istanza determinò l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata ai
sensi dell’art. 622 c.p.p., per nuovo esame al giudice civile competente in
grado di appello (anche con riferimento
all’omesso controllo contestato al direttore, aspetto non affrontato dalla Corte
di Appello).
La
Corte di Cassazione, affermerà che “vanno,
pertanto, verificati i profili della colpa necessaria per l'affermazione di
responsabilità in ordine a tale reato, ricordando che è ben difficile che
sfugga al direttore l'errore contenuto nella prima pagina del giornale, e
precisamente nella vignetta, che, per la capacità di suscitare l'attenzione dei
lettori, ha un valore quasi pari ad un editoriale”.
Pertanto,
alla stregua
di quanto detto, la Cassazione ha elaborato il seguente principio di diritto: “l’esercizio del diritto di satira è incompatibile con il parametro
della verità. Tuttavia, se nel contesto del discorso satirico, ma al di fuori
dell’oggetto della satira è veicolata una notizia, essa deve essere vera, non
operando la scriminante”.
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