Estorsione e reddito di cittadinanza
Cassazione Sez. II, ud. 17 marzo 2022 (dep. 2 maggio
2022), n. 17012
Ritenuto in fatto
1.
La Corte di appello Di Napoli confermava la responsabilità del R. per il reato
di estorsione. Si contestava al ricorrente di avere minacciato di morte la
moglie impugnando un martello e di averle scagliato contro una lampada
intimandole di consegnargli il denaro del reddito di cittadinanza (a lui
intestato ed unica fonte di sostentamento del nucleo familiare) per acquistare
sostanza stupefacente.
2.
Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione il difensore, che
deduceva: 2.1. violazione di legge e vizio di motivazione: si contestava
l'assenza degli elementi costitutivi dell'estorsione e, in particolare, della
minaccia rivolta contro la persona dato che dalle prove raccolte sarebbe emerso
che l'aggressione sarebbe stata rivolta unicamente nei confronti delle cose e
si sarebbe risolta in una sorta di "sfogo" dovuto alla situazione di
astinenza nella quale versava il ricorrente.
2.2
Violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla qualificazione
giuridica del fatto: il ricorrente avrebbe agito esclusivamente per entrare in
possesso del denaro proveniente dal reddito di cittadinanza a lui intestato,
pertanto il fatto avrebbe dovuto essere definito come esercizio arbitrario
delle proprie ragioni.
Considerato in diritto
1.
Il primo motivo di ricorso è inammissibile: si risolve nella proposta di una
lettura alternativa delle emergenze processuali, e non individua fratture logiche
manifeste e decisive del percorso motivazionale.
Il
collegio in materia di vizio di motivazione ribadisce che il sindacato del
giudice di legittimità sulla motivazione del provvedimento impugnato deve
essere volto a verificare che quest'ultima: a) sia "effettiva",
ovvero realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a
base della decisione adottata; b) non sia "manifestamente illogica",
perché sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da
evidenti errori nell'applicazione delle regole della logica; c) non sia
internamente "contraddittoria", ovvero esente da insormontabili
incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le
affermazioni in essa contenute; d) non risulti logicamente "incompatibile"
con "altri atti del processo" (indicati in termini specifici ed
esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno del ricorso) in misura
tale da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico
(Sez. 1, n. 41738 del 19/10/2011, Longo, Rv. 251516); segnatamente: non sono
deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua
mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà
(intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando
mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo;
per cui sono inammissibili tutte le doglianze che "attaccano" la
persuasività, l'inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa
illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una
differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse
prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui
punti dell'attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza
probatoria del singolo elemento (Sez. 6 n. 13809 del 17/03/2015,0., Rv.
262965).
Nel
caso in esame, contrariamente a quanto dedotto, dal compendio motivazionale
integrato composto dalle due sentenze di merito emergeva che il tentativo di
aggressione rivolto contro la persona offesa - e non solo contro le cose - era
stato osservato dagli operanti intervenuti, circostanza che rende
particolarmente solido il quadro probatorio a carico ricorrente (pag. 4 della
sentenza impugnata).
La
motivazione offerta dalla Corte territoriale è priva di vizi logici manifesti e
decisivi e si presenta coerente sia con le indicazioni ermeneutiche offerte
dalla Corte di legittimità, che con le emergenze processuali: si sottrae
pertanto ad ogni censura in questa sede.
2.
Il secondo motivo di ricorso è infondato.
Il
collegio rileva che, sebbene la carta che consentiva l'accesso al reddito di
cittadinanza fosse intestata al ricorrente, il suo impossessamento non si
risolve nella apprensione di un bene "proprio", tenuto conto del
fatto che il reddito di cittadinanza è un sussidio che soccorre l'intero nucleo
familiare, come si evince dal fatto che viene elargito sulla base di
certificazioni relative alla posizione reddituale di tutti i componenti della
famiglia.
Si
ritiene cioè che, quando il reddito è stato concesso sulla base della
valutazione della posizione di un intero nucleo familiare, la apprensione
illegittima della carta che
consente
l'accesso allo stesso riguarda somme destinate a tutti i componenti della
famiglia e non solo all'intestatario del reddito; il che, nel caso di specie,
consente di ritenere integrata l'estorsione, dato che la violenza esercitata
dal R. era diretta ad apprendere somme destinate al sostentamento non solo suo,
ma dell'intera famiglia. La Corte di appello, in coerenza con tale
interpretazione, rilevava che destinataria dell'assegno era la famiglia
anagrafica dell'intestatario comprensiva dei coniugi separati o divorziati
residenti nella stessa abitazione e dei figli sotto i ventisei anni non
conviventi a carico dei genitori e riteneva, pertanto, integrata l'estorsione
(pag. 7 della sentenza impugnata).
2.
Ai sensi dell'art. 616 c.p.p., con il provvedimento che rigetta il ricorso la
parte che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del
procedimento.
P.Q.M.
Rigetta
il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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