Evasione ed arresti domiciliari.
Cassazione sez. VI 08.3.2012 – 04.10.2012 n.
38757
La
massima: “non
integra il reato di evasione, sotto il profilo psicologico, la condotta del
detenuto agli arresti domiciliari che, autorizzato a recarsi in ospedale, di
ritorno dallo stesso si fermi in un bar posto lungo il tragitto per un caffè”.
Preliminarmente, è opportuno ripercorrere brevemente gli
orientamenti precedenti della Corte.
Il Supremo Collegio, in passato ha chiarito
come la misura degli arresti domiciliari sia sostitutiva della custodia in
carcere sostanziandosi nella prescrizione all’imputato di non allontanarsi
dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora. Per abitazione
deve intendersi soltanto il luogo in cui la persona conduce la propria vita
domestica e privata, con esclusione di ogni altra appartenenza, quali cortili,
giardini, terrazze ed aree condominiali che non siano parte integrante ed esclusiva
dell’abitazione medesima (Cass. sez. VI, 08.03.2007).
Si è altresì statuito che quella domiciliare
è una forma di detenzione vera e propria e quindi l’allontanamento non
autorizzato del detenuto è una forma di evasione a tutti gli effetti (Cass.
sez. VI 22.01.2010 n. 17224).
Il delitto di evasione è reato istantaneo
con effetti permanenti e si consuma nel momento stesso in cui il soggetto
attivo si allontana dal luogo della detenzione o degli arresti domiciliari.
L’effetto permanente cessa quando l’evaso torna nel luogo dal quale non avrebbe
dovuto allontanarsi (Cass. sez. VI 04.05.2010 n. 25976).
In merito all’elemento psicologico del reato de
quo, è pacifico che esso coincida con il dolo generico ravvisandosi nella
consapevole violazione del divieto di lasciare il luogo di esecuzione della
misura senza la prescritta autorizzazione, non svolgendo rilievo alcuno le cause psicologiche che hanno orientato
e determinato la condotta contra legem dell’agente.
La Corte ha addirittura ravvisato il delitto
di evasione nella condotta di chi, tossicodipendente, si era allontanato
dall’abitazione in cui era ristretto, recandosi dai carabinieri chiedendo di
essere tradotto in carcere per timore di commettere reati (Cass. sez. VI
01.06.2000 n. 7842).
In Cass. sez. VI 11.01.2011 n. 684, si è
evidenziato come la configurabilità prescinda dalla durata e dalla distanza
dell’allontanamento non richiedendo neppure che la condotta dell’agente abbia dato luogo ad una
concreta elusione dell’opera di controllo da parte della p.g.
La pronuncia in esame, evidentemente si attenua
il rigido orientamento precedente.
Difatti, nella decisione in commento, la
Corte ha evidenziato come non sia configurabile il reato in questione non
essendo apprezzabili nell’agente la consapevole violazione dei limiti imposti
alla sua libertà di movimento per sole finalità terapeutiche e, quindi, la
coscienza e la volontà di sottrarsi alla sfera di custodia attesa la scarsa
valenza del brevissimo tempo impiegato per un caffè.
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