Evasione
Cassazione penale Sez. VI, 9 ottobre 2013 n. 43791
Il
giovane Tizio è ristretto agli arresti domiciliari presso la casa del suocero.
A
seguito di un diverbio con lo stesso, i rapporti diventano tesi fino a sfociare
una sera in una colluttazione fisica.
Ad
un certo punto, durante l’aggressione, Tizio per evitare conseguenze ulteriori
e sottrarsi alla violenza, insieme alla moglie decide consapevolmente di
allontanarsi dall’appartamento per recarsi presso la locale stazione dei Carabinieri
e spiegare quanto accaduto.
I
militari arrestano Tizio per il delitto di evasione ex art. 385 comma III c.p. dandone, ai sensi dell’art. 386 c.p.p., immediata
notizia al Pm ed al difensore di fiducia: il sottoscritto.
Il
Pm, ai sensi dell’art. 390 c.p.p. richiede la convalida al Gip del Tribunale di
Napoli che entro le 48 ore successive fissa l’udienza di convalida ai sensi del
comma II della citata norma.
In
sede di udienza, in base al disposto dell’art. 391 c.p.p., il giudice procede
all’interrogatorio di Tizio e convalida con ordinanza l’arresto.
Si
procede quindi al giudizio direttissimo ai sensi dell’art. 450 c.p.p.
Il
difensore, prima dell’apertura del dibattimento, ex art. 452 c.p.p. richiede il rito abbreviato ed il giudice
dispone la trasformazione del rito con ordinanza.
Il
Pm chiede condannarsi Tizio alla pena di 1 anno ed applicarsi la custodia in
carcere quale misura cautelare.
La
difesa, sottopone all’attenzione del giudice la pronuncia in commento.
La
VI sezione della Cassazione, con sentenza del 9 ottobre 2013 n. 43791 si
sofferma sull’elemento oggettivo del delitto di evasione.
Ed invero, per evasione si è sempre inteso il riacquisto della
propria libertà personale eludendo la sorveglianza diretta delle persone
incaricate.
Secondo parte della dottrina si tratta di un reato istantaneo ad
effetti permanenti[1]
laddove si evidenzia come la norma incrimini colui che evade e non colui che si
sottrae alla custodia sottolineando altresì come l’insussistenza di un obbligo
di controagire sia dimostrata dalla irrilevanza penale del mancato rientro in
carcere da parte di colui che erroneamente o per eventi naturali sia stato
posto in libertà.
In una risalente pronuncia (Cassazione 14.12.1984 in Cass. pen.
1986, 1078), l’elemento oggettivo del delitto di evasione veniva individuato
nel sottrarsi allo stato di arresto o di detenzione.
Il delitto si reputa consumato quando l’arrestato o il detenuto
sia riuscito a sottrarsi completamente alla sfera di custodia nella quale si
trovava.
Presupposto necessario ed indefettibile, è quindi la sottrazione a
quel controllo derivante dall’autorità delle decisioni giudiziarie.
Nell’ipotesi di cui al comma 3, ritenuto anche in tal caso reato
istantaneo benché con effetti permanenti[2], la fattispecie
delittuosa è integrata dall’allontanamento dal luogo in cui si ha l’obbligo di
rimanere.
Ogni allontanamento, anche se limitato nel tempo e nello spazio,
realizza(va) il delitto.
Il legislatore avrebbe utilizzato il verbo si allontana in luogo
di evade soltanto perché più adatto a rendere l’idea nell’ipotesi in cui manchi
una sorveglianza diretta.
Ebbene, con la
pronuncia in commento, la Cassazione ribalta quest’orientamento ritenendo che
il comportamento dell’imputato che si reca presso l’Autorità di p.s. per motivi
inerenti il suo stato di detenzione domiciliare, non risolvendosi nella
sottrazione alla vigilanza immediata e non aleatoria, non integra l’elemento oggettivo del reato poiché il soggetto non si sottrae
allo stato di restrizione e non sfugge ai controlli di polizia.
Sulla scorta delle argomentazioni riportate, il Supremo
Collegio ha annullato senza rinvio l’impugnata sentenza perché il fatto non
sussiste.
Terminata la discussione
delle parti, il giudice si ritira in camera di consiglio: accogliendo la tesi
difensiva, assolve Tizio perché il fatto
non costituisce reato.
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