Diffamazione e responsabilità del direttore sito internet
Cassazione, Sez. V, 12.01-24.02 2021, n.7220
La
massima
In
tema di diffamazione, l'amministratore di un sito internet non è responsabile
ai sensi dell'art. 57 c.p., in quanto tale norma è applicabile alle sole
testate giornalistiche telematiche e non anche ai diversi mezzi informatici di
manifestazione del pensiero (forum, blog, newsletter, newsgroup, mailing list,
facebook), salvo che sussistano elementi che denotino la compartecipazione
dell'amministratore alla attività diffamatoria. (Fattispecie in cui il titolare
di un sito internet aveva condiviso la pubblicazione di un articolo offensivo
della reputazione di un agente di polizia, collaborando alla raccolta delle
informazioni necessarie per la sua redazione, partecipando al collettivo
politico che ne aveva elaborato l'idea e rivendicandone in dibattimento il
contenuto).
RITENUTO IN FATTO
1.
Con sentenza del 25 settembre 2019, la Corte di appello di Milano confermava la
sentenza del locale Tribunale che aveva ritenuto R.R. colpevole del delitto di
cui all'art. 595 c.p., commi 2 e 3, per avere diffuso, su un sito internet di
cui era la titolare e sugli altri che avevano ripreso l'articolo, offeso la
reputazione di R.V. affermando che lo stesso, appartenente alla Polizia di
Stato, doveva considerarsi un "criminale in divisa" ed una "mela
marcia", per essere stato imputato del delitto di lesioni consumate ai
danni di alcuni tifosi del Brescia calcio in occasione di una partita del 2003
(collegando tale vicenda ad altre in cui gli appartenenti alla Polizia di Stato
aveva commesso gravi reati, come quelle della "Uno bianca" e del
"G8"), nonostante la sua assoluzione nel giudizio penale nei suoi
confronti celebrato.
1.1.
In risposta di dedotti motivi di appello, la Corte distrettuale aveva osservato
che:
-
la condotta di "pubblicazione" di un testo non è attribuibile soltanto
al suo diretto autore (non essendo stata raccolta la prova che l'imputata
l'avesse materialmente redatto) ma anche a chi gestisce il sito che l'aveva
diffuso, dovendone questi risponderne, se vi è prova che l'abbia condiviso, a
titolo di concorso (Cass. n. 12456/2019);
-
non si poteva pertanto affermare che il primo giudice avesse mutato la
contestazione imputando alla prevenuta una condotta meramente omissiva, senza
neppure citare l'art. 40 c.p., (Cass. n. 818/2006), posto che, appunto, se ne
era dedotta la responsabilità a titolo di concorso;
-
il sito in questione era intestato alla prevenuta, che ne era pertanto
l'indubbia titolare; la stessa, consentendo ad altri utenti di accedervi,
pubblicando i contenuti da costoro elaborati, e mantenendoveli, ne aveva
condiviso la paternità, così concorrendo nella consumata diffamazione;
-
non aveva pertanto rilievo, nel caso concreto, la pronuncia con la quale la
Corte di cassazione aveva escluso che l'amministratore di un sito possa
rispondere ai sensi dell'art. 57 c.p., (n. 16751/2018), e quindi per omesso
controllo, avendo, peraltro, la suprema Corte precisato (con la già citata
pronuncia n. 12546/2019) che costui può concorrere nel reato quando, come
ricordato, si debba ritenere che ne abbia condiviso il contenuto (in quel caso,
non rimuovendo il pezzo nonostante l'espressa richiesta);
-
l'elaborato, poi, doveva considerarsi certamente offensivo della reputazione
della persona offesa, in quanto pur ricordando la sua assoluzione, rimproverava
al medesimo i fatti per cui era stato sottoposto a processo ricollegandoli
tanto da definirlo, insieme ai coimputati, come un "criminale",
ricollegando a tale vicenda anche fatti quali di indubbia gravità, dei quali si
erano resi responsabili esponenti delle forze dell'ordine, come quelli della
"Uno bianca" e del "G8" (offensività, in assenza di ragione
scriminante, che, peraltro, nell'odierno ricorso non si contesta).
2.
Propone ricorso l'imputata, a mezzo del suo difensore, articolando le proprie
censure in due motivi.
2.1.
Con il primo deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in
relazione alla ritenuta attribuibilità dell'articolo alla prevenuta accertata
dal Tribunale per essere stato rilevato il contributo della medesima alla
raccolta delle informazioni ivi utilizzate.
Così
anche modificando irritualmente il manifesto d'accusa.
Peraltro,
nel confutare le censure difensive, la Corte avendole in narrativa
correttamente riassunte, in parte motiva le travisava.
Si
era poi ritenuta una condotta diversa consistita non nella pubblicazione
dell'articolo ma nella sua mancata rimozione dal sito, prefigurando pertanto il
reato ai sensi dell'art. 40 c.p., consumato quale gestore del sito, così
finendo, in via generale, per incolpare lo stesso di ogni condotta di eventuale
rilievo penale consumata dagli utenti.
Ed
anche in tal caso mutando irritualmente l'originaria accusa.
2.2.
Con il secondo motivo lamenta la violazione di legge ed il difetto di
motivazione, per avere la Corte fondato la propria decisione su due pronunce
della Suprema Corte in cui si attribuisce al gestore del sito la
corresponsabilità per il delitto di diffamazione solo quando vi sia prova
dell'effettivo concorso del medesimo nella pubblicazione del testo.
Concorso,
nella specie, invece, inesistente, se si considera che il teste G. aveva
riferito sulla inesistenza di un reale controllo, da parte della titolare del
sito, sui contenuti pubblicati.
Avendo
rimproverato all'imputata la mancata rimozione del pezzo, la Corte poi non
aveva motivato sulla eventuale intempestività di tale condotta, come richiesto
dalla già citata sentenza di legittimità n. 12546 del 2019.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il
ricorso promosso nell'interesse dell'imputata non merita accoglimento.
1.
Si devono innanzitutto ricordare le pronunce di questa Corte, sulla
responsabilità del titolare di un blog pubblicato sulla rete, citati dai
giudici del merito e nello stesso ricorso.
Si
è infatti affermato che, in tema di diffamazione, l'amministratore di un sito
internet non è responsabile ai sensi dell'art. 57 c.p., in quanto tale norma è
applicabile alle sole testate giornalistiche telematiche e non anche ai diversi
mezzi informatici di manifestazione del pensiero (forum, blog, newsletter,
newsgroup, mailing list, facebook), sempre che non sussistano elementi che
denotino la compartecipazione dell'amministrazione all'attività diffamatoria
(Sez. 5, n. 16751 del 19/02/2018, Rv. 272685).
E
si è poi precisato che, in tema di diffamazione, il "blogger"
risponde del delitto nella forma aggravata, ai sensi dell'art. 595 c.p., comma
3, sotto il profilo dell'offesa arrecata "con qualsiasi altro mezzo di
pubblicità", per gli scritti di carattere denigratorio pubblicati sul
proprio sito da terzi quando, venutone a conoscenza, non provveda
tempestivamente alla loro rimozione, atteso che tale condotta equivale alla
consapevole condivisione del contenuto lesivo dell'altrui reputazione e
consente l'ulteriore diffusione dei commenti diffamatori (Sez. 5, n. 12546 del
08/11/2018, dep. 20/03/2019, Rv. 275995).
Confermata
pertanto l'inapplicabilità dell'art. 57 c.p., ai gestori di siti internet
diversi dalle testate giornalistiche telematiche (e del resto, oltre alla
tassatività dei soggetti indicati dalla norma, il direttore o il vice direttore
della pubblicazione, si doveva considerare anche il diverso momento in cui
interviene il controllo dei contenuti, prima della pubblicazione, nel caso
della carta stampata e delle testate telematiche, dopo il loro inserimento, nel
caso dei blog, dei social e degli altri mezzi di comunicazione su internet),
questa Corte ha osservato come possa ritenersi il concorso del titolare del
sito (o di altro mezzo di comunicazione su internet)in cui sia stato pubblicato
il pezzo diffamatorio solo quando sia provato il suo consapevole e volontario
concorso nella diffusione stessa (individuato, ad esempio, dalla citata n.
12546/2019, nella omessa rimozione dello scritto).
2.
Anche nell'odierna, fattispecie, proprio in applicazione di tali principi di
diritto (all'uopo citati e riportati), i giudici del merito, complessivamente,
avevano dedotto il concorso della titolare del sito nella diffusione del pezzo
- la cui offensività nel ricorso non si contesta - hanno individuato, in fatto
e con motivazione priva di manifesti vizi logici, elementi e circostanze che
imponevano di concludere per la condivisione da parte della medesima dello
scritto: la R., infatti, aveva partecipato alla raccolta delle informazioni
necessaria per redigerlo, faceva parte del collettivo politico da cui era stato
concepito, ne aveva rivendicato, anche in dibattimento, il contenuto,
affermando di interamente condividerlo.
Così
che risultano inconferenti anche le doglianze relative alla presunta
applicazione, da parte dei giudici del merito, dell'ipotesi prevista dall'art.
40 c.p., posto che, invece, erano pervenuti alla declaratoria di penale
responsabilità della prevenuta non a titolo di omesso controllo ma ritenendone
il fattivo concorso.
Altrettanto
infondata è, conseguentemente, anche la doglianza relativa al difetto di
correlazione fra l'accusa e la sentenza (spesa proprio in considerazione del,
non avvenuto, mutamento del manifesto d'accusa).
3.
Il rigetto del ricorso - al quale non segue la prescrizione del contestato
delitto dovendosi tenere conto dei periodi di sospensione del termine, di
quattro mesi e quindici giorni a decorrere dall'udienza dell'8 maggio 2019 e di
sessantaquattro giorni a seguito del rinvio, per la pandemia, dell'udienza,
davanti a questa Corte, del 22 aprile 2020 - determina la condanna della
ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta
il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così
deciso in Roma, il 12 gennaio 2021.
Depositato
in Cancelleria il 24 febbraio 2021
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