Sulla possibilità di perquisire lo studio dell'Avvocato indagato.
La massima
Le garanzie dall'art. 103
c.p.p., sono apprestate a tutela non della dignità professionale degli
avvocati, ma del libero dispiegamento dell'attività difensiva e del segreto
professionale, che trovano il diretto supporto nell'art. 24 della Costituzione,
che sancisce la inviolabilità della difesa, come diritto fondamentale della
persona.
Cass.
pen., sez. II, ud. 25 ottobre 2022 (dep. 25 novembre 2022), n. 44892
Presidente
D'Agostini – Relatore De Santis
Considerato
in fatto
1.Con
l'impugnata ordinanza il Tribunale di Livorno, per quanto in questa sede
rileva, accoglieva l'istanza ex art. 324 c.p.p. formulata nell'interesse di
M.F. e per l'effetto annullava il sequestro e il decreto di convalida emesso
dal P.m. in data 1/4/2022 limitatamente ai beni e ai documenti reperiti a
seguito di perquisizione dello studio legale della ricorrente, cui ne disponeva
la restituzione.
Il
Tribunale del riesame, dopo aver disatteso le deduzioni a sostegno delle
istanze dei coindagati, in relazione alla posizione dell'Avv. M. ha ritenuto
sussistente la violazione delle garanzie previste dall'art. 103 c.p.p. in caso
di perquisizione e sequestro da eseguirsi all'interno di locali adibiti a
studio legale. In particolare l'ordinanza impugnata ha argomentato, in
consapevole dissenso rispetto alla prevalente giurisprudenza, che le garanzie
previste ai commi terzo e quarto dell'art. 103 c.p.p., in base ad
un'interpretazione logica e sistematica della disposizione, debbono trovare
applicazione anche nel caso di perquisizione eseguita a carico dello stesso
difensore a norma del comma 1 lett. a) dell'art. 103 c.p.p. ovvero nell'ipotesi
in cui il legale stesso risulti indagato.
2.Ha
proposto ricorso per Cassazione il Pubblico Ministero presso il Tribunale di
Livorno deducendo la violazione dell'art. 103 c.p.p. per come interpretato dal
Tribunale del riesame, il quale ha ritenuto di dover fare applicazione
integrale delle garanzie di libertà previste in particolare ai commi 2,3 e 4
nonostante la M. rivesta lo status di persona sottoposta alle indagini.
Il
ricorrente, premesso che la M. è indiziata di far parte di un'associazione per
delinquere finalizzata alla commissione di delitti di natura fallimentare e
tributaria nonché di truffe, autoriciclaggio e reimpiego di danaro di illecita
provenienza, avendo messo a disposizione del sodalizio la propria attività
professionale, piegandola alle esigenze illecite dei compartecipi, lamenta che
l'ordinanza impugnata -pur avendo rigettato l'istanza di riesame con riguardo
al fumus- ha ritenuto di accedere ad una rivisitazione dell'art. 103 del codice
di rito, evidenziando la stretta interferenza esistente tra la condotta
illecita investigata e l'attività professionale dell'indagata, la quale risulta
incaricata della difesa di alcuni dei coindagati in due distinti procedimenti
(nn. 3554/2015 rgnr e 3488/2019 rgnr). Su detta base, discostandosi dalla
consolidata interpretazione di legittimità, ha ritenuto che in ogni caso la
perquisizione presso uno studio legale ed il conseguente sequestro debbano
essere operati con tutte le garanzie dell'art. 103 e che il sequestro di carte
e documenti, anche se custodite in ragione di un mandato difensivo, possono
essere apprese solo in presenza della motivata necessità di ricercare "oggetti
specifici e non per necessità esplorative".
Secondo
il P.m. detta interpretazione riconosce nella sostanza la sola possibilità di
sequestrare carte e documenti che costituiscono corpo di reato anche se il
legale risulti sottoposto ad indagini e si pone in contrasto con gli artt. 3 e
112 Cost., fornendo uno scudo a chi abbia in animo di delinquere.
Aggiunge
ulteriormente il ricorrente che l'interpretazione accreditata dal collegio
cautelare appare erronea anche sotto il profilo letterale in quanto il legislatore
ha ben specificato l'ambito di applicazione delle garanzie di cui ai commi
2,3,4 dell'art. 103, norma volta a tutelare la funzione difensiva svolta,
sicché è l'esistenza o meno di un incarico professionale a fornire il perimetro
di operatività delle garanzie, diversamente risolvendosi la disposizione in
un'irragionevole sorta di immunità penale, mentre la tutela delle prerogative
della professione forense trova concreta applicazione non a priori ma ex post,
al momento del vaglio della documentazione acquisita.
Ritenuto
in diritto
1.Ritiene
il Collegio che il ricorso non meriti accoglimento siccome infondato.
Il
P.m. lamenta che l'ordinanza impugnata sia pervenuta all'annullamento del
sequestro disposto nei confronti della M. sulla base di un'interpretazione
dell'art. 103 c.p.p. che si discosta dalla giurisprudenza di legittimità in
quanto postula che le garanzie di libertà del difensore si estendano anche
all'ipotesi di perquisizioni e conseguente sequestro nei confronti di legale
indagato. È del tutto evidente il riferimento alla giurisprudenza di
legittimità secondo cui per l'esecuzione di un provvedimento di perquisizione e
sequestro non occorre avvisare il Consiglio dell'ordine forense, qualora nella
commissione del reato sia coinvolto anche un difensore, atteso che le
guarentigie previste dall'art. 103 c.p.p., non introducendo un principio
immunitario di chiunque eserciti la professione legale, sono applicabili
unicamente se devono essere tutelate la funzione difensiva o l'oggetto della
difesa (Sez. 2, n. 32909 del 16/05/2012, Rv. 253263;n. 31177 del
16/5/2006,Rv.234858; Sez. 5, n. 35469 del 04/06/2003, Rv. 228326).
Siffatto
indirizzo risulta inaugurato da Sez. 2, n. 6766 del 12/11/1998, Benini, Rv.
211914, secondo cui, in tema di sequestro da eseguirsi nell'ufficio di un
difensore, qualora il mezzo di ricerca della prova venga disposto nell'ambito
di un procedimento relativo ad un reato attribuito al difensore medesimo, non è
necessario l'avviso al Consiglio dell'ordine forense di cui al comma 3
dell'art. 103 c.p.p., e ciò in quanto nella predetta ipotesi, atteso che il
soggetto attivo del reato non è la persona assistita bensì una persona che
esercita la professione legale, non viene in rilievo la tutela della funzione
difensiva e dell'"oggetto della difesa", cui è finalizzata la
disposizione in esame.
Nondimeno,
la presenza di un orientamento di legittimità all'apparenza consolidato non
esime il giudice dalla necessità di interrogarsi sulla rispondenza della regola
juris così come interpretata in sede giurisprudenziale alle peculiarità del
caso concreto.
2.
Nella specie, come evidenziato dall'ordinanza impugnata, alla M. si addebita la
partecipazione ad un sodalizio criminoso operante dal 2013, organizzato e
diretto da S.S. e C.M. , i quali, in veste di amministratori di fatto o di
diritto di varie società, avrebbero posto in essere una sistematica evasione
delle imposte dirette, dell'Iva e dei contributi previdenziali, accumulando
provviste in nero reinvestite nell'acquisto di ulteriori attività produttive.
In detto contesto la M. avrebbe prestato un contributo significativo alla
compagine delittuosa, fornendo assistenza professionale nell'acquisto di
attività commerciali, consapevole della illiceità delle provviste finanziarie
utilizzate a tal fine.
Dall'ordinanza
impugnata emerge, altresì, che l'indagata al momento della perquisizione
assisteva C. e S. nel procedimento penale per reati tributari iscritto al n.
3488/19 r.g.n. r. nonché C.F. , fratello di C.M. e anch'egli indagato per
l'ipotesi associativa di cui si discorre, nel proc. n. 3554/2015 r.g.n. r per
reati connessi al fallimento della srl Bon ton. Siffatti processi, che per
quanto consta sono ancora in corso di svolgimento, attengono fatti commessi nel
periodo di presunta operatività del sodalizio e risultano ascritti a soggetti
che, secondo la prospettazione accusatoria, ne erano promotori o partecipi con
la conseguenza che appare del tutto affidabile la sussistenza di interferenze
tra l'attività professionale dell'indagata e l'attività di ricerca della prova
promossa dall'inquirente predicata dall'ordinanza impugnata.
2.1
Dai dati richiamati emerge, infatti, che nel caso a giudizio si controverte
della prestazione da parte dell'indagata di attività professionale in favore
dei presunti sodali in termini che esulano l'assistenza tecnica e trasmodano in
un contributo cosciente e consapevole alle attività illecite da costoro poste
in essere, in violazione delle regole dettate dal Codice deontologico forense
all'art. 23, commi 5 e 6, secondo cui l'avvocato "deve rifiutare di
prestare la propria attività quando, dagli elementi conosciuti, desuma che essa
sia finalizzata alla realizzazione di operazione illecita" e "non
deve suggerire comportamenti, atti o negozi nulli, illeciti o
fraudolenti". Sono, dunque, il tenore e i contenuti della provvisoria
incolpazione a carico della M. che chiamano in causa i rapporti intrattenuti
con alcuni degli asseriti sodali e le modalità di svolgimento dell'attività
professionale nel loro interesse.
Contrariamente
a quanto assume il P.m. impugnante, pare arduo escludere che nella specie venga
in rilievo la tutela della funzione difensiva e dell'"oggetto della
difesa", cui sono finalizzate le guarentigie dell'art. 103 c.p.p..
2.2
Nè ha fondamento l'obiezione in ordine all'assenza di un mandato defensionale
relativo all'odierno procedimento. Sul punto è utile richiamare la risalente ma
non superata giurisprudenza di questa Corte secondo cui le garanzie
dall'art. 103 c.p.p., sono apprestate a tutela non della dignità professionale
degli avvocati, ma del libero dispiegamento dell'attività difensiva e del
segreto professionale, che trovano il diretto supporto nell'art. 24 della
Costituzione, che sancisce la inviolabilità della difesa, come diritto
fondamentale della persona. Tali garanzie mirano a prevenire il pericolo di
abusive intrusioni nella sfera difensiva, in quanto l'attività di ricerca negli
studi professionali implica la possibilità di esame di carte e di fascicoli
utili per l'esercizio autonomo dell'attività di difensore. Esse, perciò, non
vanno limitate al difensore dell'indagato o dell'imputato nel cui procedimento
sorge la necessità di attività di ispezione, ricerca o sequestro, ma vanno
osservate in tutti i casi in cui tali atti vengono eseguiti nell'ufficio di un
professionista, iscritto all'albo degli avvocati e procuratori, che abbia assunto
la difesa di assistiti, anche fuori del procedimento in cui l'attività di
ricerca, perquisizione e sequestro viene compiuta (in fattispecie relativa a
rigetto del ricorso del pubblico ministero avverso ordinanza del Tribunale che
aveva dichiarato la nullità, per violazione dell'art. 103 c.p.p., del sequestro
di documenti a seguito di perquisizione disposta dal Procuratore della
Repubblica presso lo studio legale di un avvocato, indagato per il reato di cui
all'art. 323 c.p.) (Sez. 6, n. 3804 del 27/10/1992, dep. 1993, Rv. 193106).
La
richiamata decisione ha dichiarato manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale dell'art. 103 c.p.p. in relazione agli artt. 3 e 76
Cost. in quanto le previsioni poste dall'art. 103, commi terzo e quarto,
c.p.p., a garanzia dei difensori non contrastano con la direttiva n. 37 di cui
all'art. 2 della legge-delega, giacché non ostacolano nè l'esercizio
dell'azione penale nè la ricerca ed acquisizione dei mezzi di prova, avendo il
legislatore previsto una disciplina peculiare in relazione all'espletamento di
attività ritenute ragionevolmente "a rischio" e, perciò, bisognevoli
di particolari garanzie per la migliore tutela del diritto di libertà
defensionale e del segreto professionale, indispensabili all'esplicazione di
una libera ed efficace attività difensiva (Sez. 6, n. 3804/1992, cit.). Si
tratta di argomenti che mantengono piena attualità e valgono a confutare i
dubbi di costituzionalità adombrati dal ricorrente.
3.
Sulla questione è intervenuto anche il massimo consesso nomofilattico chiarendo
che l'operatività dei limiti e delle garanzie previsti dall'art. 103 cod. proc
pen. per le ispezioni e perquisizioni da eseguire negli uffici dei difensori
non è subordinata alla condizione che tali atti siano disposti dall'autorità
giudiziaria nello stesso procedimento in cui è svolta l'attività difensiva. Ne
consegue che deve ritenersi illegittima la perquisizione di uno studio di un
difensore disposta dal pubblico ministero ed eseguita dalla polizia giudiziaria
senza l'osservanza delle prescrizioni dell'art. 103 commi terzo e quarto
c.p.p., anche se con riferimento ad un procedimento diverso da quello in cui
era svolta attività difensiva (Sez. U, n. 25 del 12/11/1993, dep. 1994,
Grollino,Rv. 195627).
Siffatta
decisione, risolvendo il contrasto tra due contrapposti orientamenti
interpretativi, il primo dei quali ritiene che "le speciali garanzie di
libertà del difensore previste dall'art. 103 c.p.p. sono riferibili ai soli
avvocati che assumono l'ufficio di difensore nel procedimento nel quale vengono
disposti la perquisizione o il sequestro e non ai legali che svolgano o abbiano
svolto l'ufficio in favore dell'attuale investigato, ma in diversi affari o
procedimenti" e "l'altro (che) invece giunge alla conclusione che
tali garanzie non vanno limitate al difensore dell'indagato o dell'imputato nel
cui procedimento sorge la necessità di attività di ispezione, ricerca o
sequestro, ma vanno osservate in tutti i casi in cui tali atti vengono eseguiti
nell'ufficio di un professionista, iscritto all'albo degli avvocati e
procuratori, che abbia assunto la difesa di assistiti, anche fuori del
procedimento in cui l'attività di ricerca, perquisizione e sequestro viene
compiuta", esprimeva adesione alla seconda opzione ermeneutica,
valorizzando all'uopo le chiare indicazioni provenienti dalla Relazione al
Progetto preliminare del 1978 e segnalando l'inesistenza di ragioni logico
sistematiche a sostegno del difforme indirizzo, inteso a limitare la garanzia
al difensore dell'indagato nel cui procedimento sorge la necessità di attività
di ispezione, ricerca sequestro o intercettazione. I giudici della sentenza
Grollino segnalavano come siffatta limitazione risulterebbe ingiustificata
perché darebbe "la possibilità di incidere sulla sfera riservata al
difensore attraverso attività investigative formalmente estranee al
procedimento de quo, ma che potrebbero far acquisire indirettamente alla
polizia giudiziaria e al pubblico ministero notizie ed elementi utili ai fini
dell'indagine". Veniva, peraltro, chiarito che l'interpretazione avallata
risponde all'esigenza di garantire il libero ed ampio dispiegamento
dell'attività difensiva e del segreto professionale (così come negli artt. 200
e 256 c.p.p.), che trovano diretto supporto nell'art. 24 Cost., il quale
sancisce la inviolabilità della difesa, come diritto fondamentale della
persona.
La
latitudine e pregnanza interpretativa di Sez. U. Grollino, che muovendo
dall'analisi testuale dell'art. 103 e confutando in via logica e sistematica il
contrario orientamento, ha concluso "che la norma prende in considerazione
l'attività difensiva e non il rapporto instaurato nel procedimento in cui sono
compiuti gli atti di ricerca della prova" non è efficacemente contrastata
dalla successiva giurisprudenza, solo apparentemente unanime nell'escludere le
garanzie dell'art. 103 c.p.p. al difensore indagato, dal momento che le
decisioni evocate dal ricorrente hanno esaminato casi in cui non constava
l'esistenza di un rapporto professionale tra il soggetto investigato e il
legale (Sez. 2, n. 32909/2012, cit.),ovvero si riferiscono ad ipotesi in cui il
difensore era indagato per reati commessi in danno dell'assistito (Sez. 2, n.
31177 del 16/05/2006, Rv. 234858); o, ancora, concernono specificamente le prerogative
accordate agli investigatori privati (Sez. 6, n. 8295 del 09/11/2018, dep.
2019, Rv. 275091-02). Nel segno della continuità con Sez. U. Grollino si
pongono altre pronunzie che evidenziano come le speciali garanzie di libertà
del difensore previste dall'art. 103 c.p.p. non riguardano solo il difensore
dell'indagato o dell'imputato nel procedimento in cui sorge la necessità di
svolgerle attività di ispezione, perquisizione o sequestro, ma vanno osservate
in tutti i casi in cui tali atti vengano eseguiti nello studio di un
professionista iscritto all'albo degli avvocati, che abbia assunto la difesa di
qualsiasi assistito, sia nel procedimento "de quo" che in altro
procedimento, anche del tutto estraneo rispetto a quello in cui l'attività di
ricerca, perquisizione e sequestro venga compiuta, atteso che non si tratta di
privilegi di categoria, finalizzati alla "tutela" della dignità dei
suoi appartenenti, ma del riflesso dell'inviolabilità del diritto di difesa,
come diritto fondamentale della persona garantito dall'art. 24 della
Costituzione. (Sez. 6, n. 20295 del 12/03/2001, Rv. 218841; Sez. 4, n. 23002
del 03/04/2014, Rv. 262235; in tema di sequestro presso difensore indagato,
Sez. 5, n. 27988 del 21/09/2020, Rv. 280665-01; Sez. 2, n. 19255 del 30/03/2017,
Rv. 269660).
Deve
pertanto concludersi che nel caso in esame la valutazione dell'ordinanza
impugnata risponde ad una corretta esegesi dell'art. 103 codice di rito,
postulando l'attività di ricerca della prova effettuata dal P.m., a norma del
comma 4 della disposizione in esame, l'autorizzazione del giudice per le
indagini preliminari e, in esito, il rispetto delle ulteriori garanzie
stabilite a pena di nullità dal comma 3. A tanto consegue il rigetto del
ricorso.
P.Q.M.
Rigetta
il ricorso.
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